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CULTURA, SCUOLA, EDUCAZIONE
PERSONALIZZAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI
LIVELLI ESSENZIALI DI PRESTAZIONE O PRESTAZIONI MINIME DI APPRENDIMENTO
DEI RAGAZZI? GIUSEPPE BERTAGNA
Richieste pressanti, da più parti, potenti, forse irresistibili.
Richieste per esigere che il Ministero interpreti al più presto gli
Obiettivi specifici di apprendimento di cui all'art.8 del D.P.R.
275/1999, poi confluiti negli allegati al dlgs. n. 276/2003, come
standard di prestazione degli studenti. Una perorazione per dire "no" a
queste richieste. In nome dell'autonomia e del rispetto che si dovrebbe
a una scuola affidabile che non si sottrae all'accountability.
L'espressione «livelli essenziali di prestazione»
è presente nel titolo generale della legge delega n. 53/2003 nel titolo
dell'art. 1 della stessa legge, nel comma 1 dell'art. 1 e nel comma l,
punto c e h dell'art. 2. Una cosa è certa, però: non vuol
affatto né dire né riferirsi, in maniera implicita e nemmeno
implicitissima, a «standard di apprendimento» o a «livelli essenziali di
prestazione negli apprendimenti» che i ragazzi italiani sono tenuti ad
acquisire e a dimostrare di aver raggiunto. Nemmeno si può,
inoltre, intendere come se si trattasse di «livelli essenziali (o
minimi) di prestazione nelle competenze dei ragazzi». Per spiegare il
perché di queste mie così perentorie affermazioni è necessario aver
presenti alcuni passaggi analitici.
I LEP nella sanità e nei servizi sociali
Nella nostra normativa si è parlato per la prima volta di livelli
essenziali delle prestazioni (LEP), nella XIII legislatura, governata
dal centro sinistra, in due settori strategici, e cioè la sanità (il
dlgs. n. 229 del 1999, Norme per la razionalizzazione del servizio
sanitario nazionale, a norma dell'art. 1 della legge 30 novembre 1998,
n. 419), e i servizi sociali (Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali, n. 328/2000). Queste
leggi indicavano le prestazioni essenziali (o minime) che le istituzioni
e il personale, rispettivamente dei servizi sanitario e sociale, erano
tenuti ad assicurare ai cittadini, da un lato, per non offrire ad un
calabrese prestazioni inferiori a quelle di un lombardo e, dall'altro,
per identificare quali istituzioni promosse da enti non statali potevano
rientrare nell' ambito del servizio pubblico sanitario e sociale e con
questo anche avere diritto a convenzioni con lo Stato al fine di
finanziare servizi resi. Quando si parla di LEP in campo sanitario
o sociale, dunque, a nessuno è mai venuto in mente di pensare che lo
Stato debba indicare quando e come una persona possa essere considerata
ammalata o guarita, oppure, nello specifico, bisognosa di alcuni e
determinati servizi sociali piuttosto di altri. Queste decisioni,
infatti, nel merito, sono compito peculiare del medico professionista,
sentendo il paziente, e degli operatori sociali, altrettanto
professionisti, instaurando un rapporto personale e diretto con i
cittadini bisognosi, nel loro ambiente di vita.
I LEP nel Titolo V
Il comma 2, lettera m) dell' art. 117 della Costituzione rinnovata nel
2001 riserva allo Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale».
La dizione usata conferma e legittima in pieno e al massimo livello il
senso dell' espressione richiamata al punto precedente. Sanità, servizi
sociali, istruzione e formazione sono certamente diritti civili e
sociali da garantire in maniera uniforme su tutto il territorio
nazionale. Ma, anche nel caso dell'istruzione e della formazione, in
analogia con quelli della Salute e dei Servizi sociali, i LEP non
possono di sicuro riguardare i livelli standard di apprendimento che
devono essere dimostrati da ciascun allievo per essere promosso alla
classe successiva o per avere una qualifica o un diploma. Sarebbe come
se il Ministro della Salute stabilisse, si diceva prima, quando e come e
in base alla presenza di quanti e quali fattori specifici una persona si
possa dichiarare malata o guarita in Lombardia e in Calabria.
Nel caso della scuola, dunque, devono essere i docenti, in quanto
"professionisti dell'istruzione", a stabilire quale standard di
apprendimento è doveroso attendersi da un allievo o da un gruppo di
allievi per valutarli sufficienti o eccellenti. I LEP
riguardano, invece, soltanto ciò che la Regione, nel caso della riforma
del Titolo V, deve assicurare ad ogni scuola e ai docenti in termini di
servizi, strutture, disponibilità professionali per essere poi davvero,
loro, in situazione, competenti nell'individuare professionalmente e in
maniera pubblicamente responsabile gli standard di apprendimento che è
doveroso attendersi dai ragazzi loro affidati. Per questo, nei LEP può
anche rientrare la prescrizione alle scuole e ai docenti di predisporre
servizi, strutture, disponibilità professionali a lasciarsi coinvolgere
in indagini attraverso le quali lo Stato possa verificare in tutta la
nazione se e come e a che livello essi individuano gli standard di
apprendimento per gli allievi (quali formulano e perché; sono
assimilabili gli uni agli altri? dove e come, su un'ipotetica scala,
essi si distribuiscono verso il basso o verso l'altro nelle diverse
regioni del paese? ecc.).
I LEP per l'istruzione e formazione professionale
Lo Stato è obbligato dalla Costituzione ad emanare i LEP solo per i
servizi riguardanti i servizi sociali e civili che non sono riservati
alla sua legislazione esclusiva.
Il comma 2, punto n dell' art. 117 prima citato riserva alla
legislazione esclusiva dello Stato l'emanazione delle «norme generali
sull'istruzione». Esclude, quindi, che per la scuola dell'infanzia, per
la scuola primaria, per la scuola secondaria di I grado e per i percorsi
liceali, tutti appartenenti alla categoria chiamata dalla Costituzione e
dalle leggi, «istruzione», esso stabilisca LEP. In questi settori,
infatti, lo Stato fa ben di più: stabilisce le «norme generali» che
hanno un peso superiore ai LEP e che, potendo anche non essere soltanto
"essenziali", li superano non soltanto per ampiezza, ma anche per
possibile dettaglio e cogenza.
Il comma 3 dell' art. 117 precitato, tuttavia, affida alle Regioni la
legislazione esclusiva sul sistema «dell'istruzione e formazione
professionale». Ne consegue, dunque, che lo Stato è obbligato a dettare
alle Regioni i LEP per i percorsi dell'istruzione e formazione
professionale che rientrino nei 12 anni di diritto dovere di tutti
cittadini all'istruzione e alla formazione, in quanto questi. si
configurano come «prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». I corsi
dell'istruzione e formazione professionale, in altri termini, sono certo
di esclusiva competenza delle Regioni. Se esse desiderano, tuttavia, che
siano anche spendibili ai fini dei 12 anni di diritto dovere
all'istruzione e alla formazione di tutti i cittadini, e quindi che si
possano rivolgere anche a ragazzi dai 14 ai 18 anni, devono
organizzarli, rispettando i LEP dettati dallo Stato. Cosa che il
Ministero ha fatto con la seconda parte del dlgs. 17 ottobre 2005, n.
226. Anche in questo caso, tuttavia, è escluso che lo Stato possa
dettare gli standard di apprendimento che devono essere raggiunti dagli
allievi che soddisfano il loro diritto dovere a 12 anni di istruzione e
formazione in questi percorsi; o che possa interpretare i LEP nel senso
di livelli essenziali delle prestazioni di apprendimento o di competenza
che i singoli ragazzi devono raggiungere. Sarebbe un non rispettare
l'autonomia della scuola e dei docenti, addirittura costituzionalizzata
nel 2001 all'art.
117, comma 3, e sarebbe, soprattutto, smentire prima ancora di
applicarlo e verificarlo il principio di sussidiarietà (art. 118 della
Costituzione), che, come è noto, impone di valorizzare il ruolo degli
enti locali e delle istituzioni scolastiche, prima che possa
configurarsi il potere sostitutivo dello Stato per manifesta
inadeguatezza di questi enti nel compiere il loro dovere (potere
sostitutivo molto limitato, in verità, con il Titolo V del 2001, ma
molto rafforzato con l'art. 120 della nuova riforma della Costituzione,
varata nel 2005 e che andrà a referendum confermativo nel 2006).
È sempre la scuola e il docente, dunque, che, fino a manifesta prova
contraria, hanno la responsabilità professionale di identificare i
livelli accettabili di apprendimento che devono essere raggiunti dai
ragazzi. Così, del resto, vuole anche l'art. 3 comma l punto a della
legge delega n. 53/03 e, di conseguenza, anche tutti i decreti della
legislazione delegata.
I LEP non sono standard di
prestazione dei ragazzi
Le Indicazioni nazionali per le scuole del primo ciclo e per i percorsi
liceali prescrivono perciò, è scritto nei diversi decreti legislativi
che le riportano, «i livelli essenziali di prestazione (intesi qui nel
senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole pubbliche
della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini per
mantenere l'unità del sistema educativo nazionale di istruzione e di
formazione, per impedire la frammentazione e la polarizzazione del
sistema e, soprattutto, per consentire ai bambini la possibilità di
maturare in termini adatti alla loro età tutte le dimensioni tracciate
nel Profilo educativo, culturale e professionale». In pratica,
prescrivono, per continuare nella citazione dei decreti, ciò «a cui
tutte le scuole del Sistema Nazionale di Istruzione sono tenute per
garantire il diritto personale, sociale e civile all'istruzione e alla
formazione di qualità».
La norma è un po' involuta e, allo stesso tempo, un po' ridondante. Ma
una cosa è chiarissima. Visto che tutto quanto è scritto nei decreti è
«norma generale» sull'istruzione e, quindi, vale più di semplici LEP,
l'espressione «i livelli essenziali di prestazione (intesi qui nel senso
di standard di prestazione del servizio) che le scuole pubbliche della
Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini ecc.»
intende soltanto ribadire quanto si è cercato di precisare ai punti
precedenti.
Vuol dire, in altre parole, che gli obiettivi generali del
processo formativo e gli obiettivi specifici di apprendimento, previsti
dall'art. 8 del D.P.R. n. 275/1999 e per la prima volta elencati nelle
Indicazioni nazionali per i diversi gradi e ordini scolastici, non hanno
come soggetto logico e grammaticale della loro formulazione l'allievo,
che (deve "sapere e saper fare questo e quest' altro", nella prospettiva
degli obiettivi generali del processo formativo riportati nei decreti),
ma, piuttosto, l'istituzione scolastica e i docenti.
Sia gli obiettivi generali del processo formativo, sia gli obiettivi
specifici di apprendimento, perciò, non precisano ciò che un singolo
allievo, più o meno ideale, deve sapere o fare ad un determinato livello
di prestazione apprenditiva, in quanto singolo, alla conclusione di un
periodo didattico o di un ciclo, in tutta Italia. Questo è riserva
professionale dei docenti e della scuola.
Definiscono, invece, ciò che le istituzioni scolastiche pubbliche,
statali e non statali, e i docenti sono obbligati deontologicamente e
tecnicamente, in ogni regione del Paese, ad usare per progettare i
propri autonomi percorsi formativi al servizio del massimo sviluppo
possibile degli allievi, e di cui poi sono obbligati a rendere cqnto (accountability)
alle famiglie, agli allievi e alla società nel suo complesso, grazie ai
processi della valutazione interna di scuola (autovalutazione di
sistema, valutazione degli apprendimenti) ed esterna nazionale dello
Stato (valutazione di sistema e degli apprendimenti, affidata
all'INVALSI).
I contenuti delle Indicazioni nazionali dalla scuola dell'infanzia ai
licei, quindi, coerentemente all'art. 8, comma l, punto b e f del D.P.R.
n. 275/1999, vanno intesi come standard obbligatori di prestazione del
servizio professionale che le scuole e i docenti sono tenuti ad erogare
nell'insegnamento per promuovere al meglio le competenze degli allievi,
all'interno di una direzione di senso nazionalmente condivisa (gli
obiettivi generali del processo formativo).
Per converso, vanno anche intesi come i contenuti di un servizio che
l'Amministrazione statale, coinvolgendo ovviamente anche i cittadini che
ne usufruiscono, è obbligata a controllare sia garantito, e a che
livello di qualità, nell'intero sistema educativo nazionale, proprio al
fine di «mantenere l'unità del sistema educativo nazionale di istruzione
e di formazione, per impedire la frammentazione e la polarizzazione del
sistema» (dalle Indicazioni nazionali).
I contenuti delle Indicazioni nazionali e, in particolare, l'elenco
delle conoscenze e delle abilità che compongono gli obiettivi specifici
di apprendimento, dunque, non sono e non possono nemmeno essere standard
minimi (o medi) di apprendimento che devono essere raggiunti e, se
possibile, superati dai singoli allievi di tutte le scuole d'Italia.
Non a caso, infatti, quando scandiscono, per ogni annualità o per
ogni biennio, gli elenchi delle conoscenze e delle abilità a cui
riferirsi per organizzare l'insegnamento personalizzato agli allievi,
fanno precedere tali elenchi dalla seguente premessa: alla fine dell'
anno o del biennio, «la scuola ha organizzato, per lo studente, attività
educative e didattiche unitarie che hanno avuto lo scopo di aiutarlo a
trasformare in competenze personali le seguenti conoscenze e abilità
disciplinari». La «scuola ha organizzato», non «lo studente deve aver
raggiunto»,.«deve essere in grado di.. .». .
D'altra parte, se le Indicazioni nazionali avessero avuto
la pretesa di indicare standard e livelli di apprendimento per gli
allievi, avrebbero dovuto scrivere gli «obiettivi specifici di
apprendimento» in maniera anche tecnicamente molto diversa. Avrebbero,
cioè, dovuto precisare per ciascun obiettivo, anche gli standard e i
livello minimi o medi di padronanza attesi per tutti gli allievi. In
questo senso, le Indicazioni nazionali dovevano pure dichiarare che chi
non avesse raggiunto gli standard e i livelli di apprendimento stabiliti
avrebbe dovuto essere negativamente sanzionato sul piano valutativo. E
costringere la scuola e i docenti a trasformare la loro attività
educativa e didattica non in un servizio alla persona dell' allievo e
alla maturazione integrale della sua personalità, come ha disposto
l'art. 1 della legge delega n. 53/2003, ma in un servizio che doveva
piegare la persona di ogni allievo al raggiungimento degli standard
stabiliti, fino al punto paradossale di ritenere maturata in maniera
integrale la personalità di ciascun allievo solo quando essa si fosse
strutturata sul modello delle prestazioni attese dallo Stato. Avrebbero,
insomma, dovuto essere caratterizzate da una impostazione
prestazionistica ed efficientistica di tipo selettivo e plasmativo che,
invece, respingono quasi in ogni riga.
Può darsi che questo rifiuto discenda dal dovere del legislatore di
rispettare in maniera letterale una norma vigente.
Infatti, molti che adesso lamentano l'assenza, nelle Indicazioni
nazionale, di precisi standard di prestazione per l'apprendimento di
ciascun allievo e che invocano, concitati e talvolta sdegnati per la, a
loro avviso, colpevole mancanza, una rapida riscrittura delle
Indicazioni proprio per andare in questa direzione, dimenticano che una
scelta di questo genere avrebbe palesemente conflitto con l'art. 8,
comma 1, punto b del D.P.R. n. 275/1999. Solo in una versione
provvisoria, poi cassata in quella definitiva apparsa sulla «Gazzetta
Ufficiale», l'art. 8 parlava, infatti, di obiettivi specifici di
apprendimento intesi anche come standard di prestazione degli
apprendimenti degli allievi. Il testo finale è, invece, quello noto,
dove l'accenno agli standard di apprendimento per ogni obiettivo
specifico è scomparso.
Molto più probabilmente, però, il rifiuto di questo prestazionismo
pedagogico efficientistico e selettivo, per di più centralizzato, più
che da una filosofia dell' educazione di natura personalistica, che pur
non si può negare presente nel testo delle Indicazioni nazionali e negli
altri documenti della riforma, discende da un rispetto complessivo e
sostanziale della riforma istituzionale e costituzionale avviata
nel nostro Paese negli ultimi quindici anni. Riforma, si sa, che ha
fatto abbandonare, almeno sulla carta, le tradizionali logiche
istituzionali e costituzionali gerarchico-stataliste e, al contrario,
delinea, in generale, un sistema Paese e, in particolare, un sistema
educativo nazionale di istruzione e di formazione per la prima volta,
programmaticamente, fondato sui principi dell' autonomia (legge ll.
59/1997) e, soprattutto, di sussidiarietà verticale e orizzontale (art.
118 della Costituzione), di equità (art. 118, co. 1; art. 117, co. 2,
punto m), di solidarietà (art. 119) e di responsabilità (art. 2 e 118).
Per questo, che supera la tradizionale coincidenza tra Repubblica e
Stato e che prevede un governo e una gestione delle istituzioni
formative non più esclusiva dello Stato, ma cooperativa tra Stato, Enti
territoriali, istituzioni scolastiche e famiglie, tutti al servizio del
principio della «della crescita e della valorizzazione della persona
umana» di ciascun cittadino (art. 3 della Costituzione, art. 1 della
legge delega n. 53/03).
Definendo, infatti, obblighi deontologici e tecnici per le scuole e i
docenti, e mediatamente, quindi, anche per gli allievi e le famiglie, le
Indicazioni nazionali sono coerenti con questi principi.
Non presuppongono, infatti, per richiamarci al solo principio di
sussidiarietà, che l'ente più lontano dall'alunno, e peraltro solo
persona giuridica, ovvero lo Stato, possa fare ciò che solo la persona
umana dell' alunno, innanzitutto, e poi le persone umane delle
«formazioni sociali» (art. 2, della Costituzione) che gli sono più
vicine nel percorso della sua crescita educativa (la famiglia e i
docenti, insieme alle figure presenti nel territorio) possono e debbono
fare, in autonomia e responsabilità, per la sua concreta miglior
educazione.
Presuppongono, invece, proprio in nome dei principi di equità,
solidarietà e responsabilità, che sia poi compito dello Stato, da un
lato, predisporre strumenti per controllare a livello nazionale che non
si dia di meno a chi ha bisogno di più, da cui l'obbligo di adeguate
politiche di riequitibrio formativo; dall'altro lato, tutelare e
avvalorare - con appositi interventi sociali e anche formativi di
sostegno - il principio che vuole responsabilmente le istituzioni di
istruzione e di formazione al servizio del pieno sviluppo e della
valorizzazione della persona umana di ciascuno, e non il contrario,
ovvero le persone al servizio della crescita e della valorizzazione
delle istituzioni (Stato compreso), perché in questo caso, a parte il
vulnus allo spirito costituzionale, perderebbero sia le persone sia le
istituzioni, mentre nel primo guadagnerebbero ambedue.
Necessità di livelli essenziali di prestazione dei ragazzi o standard
nazionali di apprendimento
Tutto questo non significa negare né che non si possa giungere alla
identificazione di standard nazionali di apprendimento degli allievi (o
livelli essenziali delle prestazioni di apprendimento dei ragazzi), né
che questa operazione sia non solo utile, ma addirittura, già oggi,
visto che le Indicazioni nazionali del primo ciclo sono uscite nel 2004,
indispensabile, e proprio per rispettare tutti i principi che si sono
appena elencati.
Significa soltanto che la strada per giungere a questo risultato non può
essere quella tradizionalmente deduttiva, saintsimoniana e statalista a
cui siamo stati abituati e che molti continuano ad invocare.
Presupporla, in altri termini, illuministicamente, come un punto di
partenza invece che di arrivo, e poi di continuo e sistematico,
democratico adattamento in itinere. .
Non è possibile, insomma, che lo Stato riunisca a Roma un trust di
cervelli (pedagogici e docimologici) eccezionali quanto si voglia, i
quali stilino un repertorio non solo di che cosa i docenti debbano
considerare obiettivi specifici di apprendimento per i loro ragazzi (le
conoscenze e le abilità ora presenti nelle Indicazioni nazionali), ma
anche e addirittura come, quanto, a che livello e quando i ragazzi
debbano sapere e saper fare il che cosa in questione per dichiararlo
formativo. Altro che pretenzioso costruzionismo alla von Hayek, in
questo caso. Inoltre, come si potrebbe ancora parlare, se lo si
adottasse nella sua caratterizzazione così elitaria e verticistica, di
rispetto e valorizzazione della persona umana di tutti (non solo di
qualcuno) gli attori coinvolti nel processo educativo, a partire
naturalmente e anzi in posizione dominante dall'alunno, e poi del
principio di sussidiarietà?
La procedura per giungere alla determinazione degli standard nazionali
di apprendimento, come ho cercato di illustrare nel mio Valutare tutti
valutare ciascuno (La Scuola,Brescia 2004), deve essere perciò - a mio
avviso - molto diversa da quella saintsimoniana e costruttivista appena
riassunta. In particolare, deve essere non deduttiva, ma induttiva; non
elitaria, ma popolare; non statica, ma dinamica; non causale
deterministica, ma finale e complessa; non illuministica, ma
democratica; e valorizzare a pieno titolo non solo la scuola e i
docenti, ma anche gli studenti nel senso 'di non trattarli come cera da
plasmare per impiegare una vecchia ma non per questo superata metafora,
come se loro non fossero soggetti protagonisti dei processi educativi,
valutativi compresi.
Ragione per cui di standard nazionali di apprendimento o di livelli
essenziali delle prestazioni attese dai ragazzi non potranno mai parlare
le Indicazioni nazionali, ma semmai un INVALSI rinnovato, dopo che abbia
impostato un lavoro negoziato e concertato con le scuole e con docenti
proprio per giungere, in tempi certi, a questo risultato, da sottoporre
poi a continua manutenzione condivisa con le scuole. Per i dettagli di
questa proposta rimando chi fosse interessato al libro prima citato.
OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO,
OBIETTIVI FORMATIVI E UNITÀ DI APPRENDIMENTO
Quando si parla di obiettivi, nel nostro paese e in letteratura, spesso
scatta il riflesso inconscio di un certo deduttivismo pitagorico.
Avremmo così obiettivi a lungo termine da cui si ricavano quelli a medio
termine e, infine, quelli immediati. Oppure avremmo finalità educative
da cui si ricavano gli obiettivi generali da cui poi discendono gli
obiettivi specifici. Oppure ancora, come recitavano i Programmi della
scuola media del 1979, avremmo gli obiettivi finali, da cui si secernono
quelli intermedi e immediati. Spesso, inoltre, questa matrioska
deduttiva si duplica trasversalmente anche all'interno di altre
classificazioni: per esempio, quella presente nei Programmi per la
scuola elementare del 1985 tra area educativa (per cui avremmo obiettivi
educativi a lungo, medio termine e immediati ecc.) e area didattica (da
cui obiettivi didattici a lungo, medio termine e immediati ecc.), oppure
(sempre i Programmi del 1979) tra area cognitiva, non cognitiva e di
intersezione (senza parlare delle classiche aree della tassonomia di
Bloom). E così via analogando.
Applicando questo impianto pitagorico-deterministico alla riforma e, in
particolare, al Profilo educativo, cultuale e professionale e alle
Indicazioni nazionali risulta spontaneo, a molti, ragionare, dunque,
come se, nel Profilo, trovassimo le «finalità educative» che poi le
Indicazioni nazionali si incaricano di esplodere in «obiettivi generali
del processo formativo» e in «obiettivi specifici di apprendimento».
Un ragno che tesse la tela, cavando il filo da se stesso, cosicché anche
il confine estremo della ragnatela sarebbe, in realtà, della stessa
natura del suo centro: il ragno stesso. Un emanazionismo plotiniano
senza alcuna discontinuità qualitativa e funzionale.
Questi molti che ragionano nel modo descritto rimangono, quindi, un po'
sconcertati quando le stesse Indicazioni nazionali introducono l'obbligo
per la scuola e per i docenti di lavorare per «obiettivi formativi"
delle diverse unità di apprendimento. Pensavano che il confine estremo
della ragnatela fosse già stato raggiunto (per di più dal Ministero,
visto che è stato il Ministero ad emanare Profilo e Indicazioni) con gli
obiettivi specifici di apprendimento:
quale ulteriore livello di dettaglio deduttivo si poteva mai immaginare,
infatti, dopo gli obiettivi di apprendimento non a caso definiti
specifici? Forse obiettivi specifici ancora più specifici, specifici al
quadrato?
Chi ha queste attese e si è posto queste domande non è evidentemente
soddisfatto da una risposta ad esse che sia giuridicista. Giustamente
reagirebbe parlando di didattica di Stato. Non conta, dunque, che si
ricordi che il D.P.R. n. 275/1999, oltre che di «obiettivi generali del
processo formativo» e di «obiettivi specifici di apprendimento» (art. 8,
comma l, lettere a e b), parlasse anche di «obiettivi formativi» (art.
13, comma l). E che i decreti attuativi della legge delega n. 53/2003,
attraverso le Indicazioni nazionali, non abbiano fatto altro che
riferirsi pedissequamente a questi dispositivi normativi, applicandoli,
peraltro, per la prima volta (e quindi anche con tutte le incertezze
della prima volta). Non è, infatti, un argomento rispondere ad una
obiezione, sostenendo che la responsabilità dei problemi che segnala non
è dei decreti legislativi seguiti alla legge delega n. 53/2003 varata
dal centro destra, ma di una norma che la precede, varata dal centro
sinistra. Se l'art. 8 del D.P.R. n. 275/1999 era sbagliato, ancorché
introdotto dal centro sinistra, occorreva correggerlo, e i decreti
legislativi n. 59/2004 per il primo ciclo e n. 226/2005 per il secondo
dovevano modificarlo. Non è, infatti, che il centro sinistra abbia un
potere così battesimale da trasformare con il solo suo tocco i peccati
in virtù.
Chi ha queste attese e si è posto queste domande pretende, giustamente,
dunque, risposte di merito, che, se non possono prescindere dalla
legislazione costituzionale e ordinaria vigente, tuttavia la devono
autenticare con argomenti persuasivi.
Obiettivi formativi: perché?
Bisogna allora partire da una rilettura dell' art. 13 comma l del D.P.R.
n. 275/1999 per passare dal formale solo giuridico al sostanziale
giuridico-pedagogico-sociale.
L'articolo in questione, come è noto, avvertiva che le istituzioni
scolastiche e i docenti possono «contribuire a definire gli obiettivi
specifici di apprendimento di cui all'art. 8 comma l, lettera b», ovvero
contribuire a definire quegli «obiettivi specifici d'apprendimento
relativi alle competenze degli alunni» che devono essere dettati dal
Ministero e che questo, nel 2004 e 2005, ha inserito nelle attuali
Indicazioni nazionali, «riorganizzando i propri percorsi didattici
secondo modalità fondate su obiettivi formativi e competenze».
Vanno ben annotate e analizzate le parole che compongono questo periodo.
Le istituzioni scolastiche e i docenti possono «contribuire a definire
gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli
alunni» che il Ministero deve emanare e a mano a mano aggiornare,
«riorganizzando i propri percorsi didattici»: cioè riorganizzando i
contenuti dei propri insegnamenti o, se si vuole dire in modo diverso,
la successione epistemologicamente legittimata e corretta delle
operazioni concettuali e metodologiche che fanno sì che si insegni in
maniera organica e compiuta, per esempio, la fisica o la storia, e non
qualcosa che con la fisica e la storia ha poco o nulla a che fare tanto
risulta, rispetto ad esse, evanescente, riduttivo ed approssimato.
Riorganizzare quanto sopra, proseguiva il periodo citato dell' art. 13,
«secondo modalità fondate su obiettivi formativi e competenze».
Perché, domandiamoci, anzitutto, instaurare una simmetria così
intenzionale tra «obiettivi formativi» e «competenze»? E perché il comma
l, lettera b dell'art. 8 del D.P.R.
n. 275/1999 parla di obbligo del Ministero di emanare «gli obiettivi
specifici d'apprendimento relativi alle competenze degli alunni» che
devono essere promosse dalla scuola e dai docenti, mentre non parla
affatto di obbligo del Ministero di emanare, dettagliandole magari
perfino per livelli attesi, le competenze?
La risposta alle due domande è intuitiva. E quella all'uno interrogativo
chiarisce anche quella da dare all' altro.
Si parla di «riorganizzare i propri percorsi didattici secondo modalità
fondate su obiettivi formativi» perché non sempre ciò che è
epistemologicamente legittimo e corretto risulta anche
psicopedagogicamente adeguato alle capacità, agli interessi e alle
condizioni di stato dell' allievo.
Detto in altro modo: non sempre insegnare una scienza come deve essere
insegnata per non tradirla nella sua coerente consistenza si traduce
davvero nell' apprendimento concreto ed esistenziale di quella scienza
da parte dell' allievo. Detto nel linguaggio degli obiettivi adottato
dal combinato disposto art. 8 e art. 13 del DP.R. 275/1999: non
sempre le conoscenze e le abilità che compongono gli «obiettivi
specifici di apprendimento» dettati dal Ministero sono anche adatte alle
capacità, agli interessi e alle condizioni di stato dell' allievo e
sono, allo stesso tempo, per lui, significative, ovvero motivanti o
finalizzanti le sue energie personali. Solo in questo secondo
caso, d'altra parte, gli «obiettivi specifici di apprendimento» dettati
dallo Stato diventano davvero occasione affinché l'allievo si formi, nel
senso di darsi una forma (intellettuale, estetica, sociale, motoria,
morale ecc.) diversa e migliore da quella che aveva prima di
incontrarli, e, reciprocamente, perché il docente riesca a dare al suo
allievo la forma intenzionata come opportuna da lui e dalla società per
la sua crescita; solo in questo caso, in altri termini, gli «obiettivi
specifici di apprendimento» diventano e sono davvero «obiettivi
formativi» cioè adatti e significativi, formanti, per l'allievo.
Viceversa, resteranno sempre qualcosa di estraneo alla sua personalità.
Non personalizzandosi, non lo renderanno "migliore", più capace di
giudicare, di operare, di agire, di pensare, di stare con gli altri
nelle situazioni della sua vita. Piuttosto gli stimoleranno una
resistenza, per la quale egli si sottrae con astuzia alla loro
influenza, spesso addirittura con tutte le sue forze (nei casi di
disadattamento scolastico).
Solo in presenza di obiettivi formativi, d'altra parte, è ragionevole
identificare gli standard di apprendimento attesi come minimi dagli
studenti. Il rischio del prestazionismo acritico e selettivo, se non
scompare mai da nessun rapporto educativo, è certo molto più attenuato
in questo caso rispetto a quello che sottrae questa responsabilità per
Pierino all'équipe docente di Pierino, delegandola agli esperti di Roma.
Questo non significa, ribadisco, che non si debba giungere a
identificare anche standard minimi di apprendimento nazionali, ma di
sicuro, come cercavo di richiamare nel libro Valutare tutti valutare
ciascuno (La Scuola, Brescia 2004), non a priori e dal centro verso la
periferia, ma a posteriori e dalla periferia al centro.
La competenza
Solo se gli «obiettivi specifici di apprendimento» diventano davvero
«obiettivi formativi» anche completi dei «relativi standard di
apprendimento» avremo, allora, alla fine di un processo educativo, la
trasformazione delle capacità di ciascuno in competenze personali.
La competenza, infatti, non è soltanto una conoscenza o un insieme di
conoscenze (un sapere, più saperi) messe insieme e ripetute; se ne
limitassimo il significato a questo livello, la potremmo scambiare per
buona erudizione, o nozionismo. Nemmeno è soltanto un' abilità o un
insieme di abilità (un saper fare, tanti saper fare) coordinate ed
esibite; se ne limitassimo il significato a questo livello, la potremmo
scambiare per virtuosismo tecnico che qualcuno può svolgere per
mestiere, ma magari non con piena soddisfazione e realizzazione di sé, e
al punto da volersene sbarazzare non appena possibile.
La competenza è piuttosto un insieme
integrato di conoscenze e di abilità che si sono personalizzate ed
armonizzate a tal punto dentro ciascuno di noi da trasformarsi
nell'essere che siamo; da costituire, perciò, per noi, un patrimonio
difficilmente deperibile (al ctrario delle conoscenze e delle abilità
anche sottoposte ad esercizi di manutenzione), perché non sono diventate
altro da come siamo nel momento in cui risolviamo problemi, eseguiamo
compiti, elaboriamo progetti che la vita scolastica e non scolastica
quotidianamente ci pone. Con i nostri impacci reali e con le nostre
disinvolture reali, con i nostri limiti e le nostre eccellenze
culturali.
Per riferirsi ad una definizione ministeriale (cfr. la C.M. n.84/2005),
infatti, «la competenza è l'agire personale di ciascuno, basato sulle
conoscenze e abilità acquisite, adeguato, in un determinato contesto, in
modo soddisfacente e socialmente riconosciuto, a rispondere ad un
bisogno, a risolvere un problema, a eseguire un compito, a realizzare un
progetto. Non è mai un agire semplice, atomizzato, astratto, ma è sempre
un agire complesso che coinvolge tutta la persona e che connette in
maniera unitaria e inseparabile i saperi (conoscenze) e i saper fare
(abilità), i comportamenti individuali e relazionali, gli atteggiamenti
emotivi, le scelte valoriali, le motivazioni e i fini.
Per questo, nasce da una continua interazione tra persona, ambiente e
società, e tra significati personali e sociali, impliciti ed espliciti».
Ebbene, come è possibile che possano maturare competenze personali se
gli «obiettivi specifici di apprendimento» non sono diventati «obiettivi
formativi» adatti e significativi per noi, al livello standard per noi
migliore?
Ecco, dunque, il perché della simmetria introdotta nell' art.13 tra
«obiettivi formativi e competenze», Ed ecco anche il perché della
intolazione del comma 1, lettera b dell' art. 8 del D.P.R. n. 275/1999
che parla di obbligo del Ministero di emanare «gli obiettivi specifici
d'apprendimento relativi alle competenze degli alunni»: appunto perché
gli obiettivi specifici di apprendimento non sono competenze, ma trovano
il loro fine e la loro autenticazione, se trasformati dai docenti negli
obiettivi formativi di unità di apprendimento, nel promuovere le
competenze personali degli alunni.
Unità di apprendimento
La relazione introdotta tra obiettivi specifici di apprendimento,
obiettivi formativi con relativi standard di apprendimento e competenze
spiega anche perché le Indicazioni nazionali non parlino più di «unità
didattiche», ma accreditino la dizione di «unità di apprendimento». Non
conta nulla, infatti, in quest' ottica, ben curricolare a priori, sul
piano didattico, cioè dell' oggetto dell'insegnamento, un sapere
disciplinare o più saperi disciplinari. Non conta nulla, in altri
termini, lavorare bene sui contenuti di insegnamento, se ci si ferma
qui. Ciò che conta, infatti, per il docente, è che questa ben articolata
distribuzione didattica a priori dei contenuti non resti, né sulla
carta, né nella sua testa ben fatta, né in sue azioni di insegnamento
solo asteniche e autoreferenziali, ma che diventi, a posteriori, dopo
essersi fatta relazione (intellettuale, sociale, affettiva, espressiva,
linguistica, motoria ecc.) attiva e diretta con gli allievi, nella loro
integralità, verificabile e verificato apprendimento personale dell'
allievo stesso, sua modificazione di comportamenti, valori, concetti,
modi di vedere e di considerare le cose.
Alcuni passi delle Raccomandazioni per la comprensione e l'attuazione
delle Indicazioni nazionali (presentate al CNPI) argomentano, mi pare
con chiarezza, questo passaggio.
Esse ricordano che le «unità di apprendimento» sollecitano il
superamento di «una programmazione. analitica condotta soltanto o
soprattutto a priori, per sottolineare, invece, il ruolo professionale
delle mediazioni didattiche in itinere e della riflessione sulle azioni
condotta a posteriori» dal docente; con le unità di apprendimento, l'équipe
pedagogica, «dopo aver organizzato intenzionalmente solo a grandi linee,
a priori, i propri interventi educativi e didattici (formulazione dello
«scenario»: fase pre attiva), dimostra la "saggezza professionale" di
adattarli in itinere alle "sorprese" e agli "imprevisti" che accadono
nella fase attiva, nonché apprende, a posteriori, nella fase post
attiva, rifllettendo sulle ragioni dello scarto tra progettato e
realizzato e sul modo con cui ci si è comportati, a fare meglio in
futuro e, soprattutto, ad affrontare con sempre maggiore competenza le
novità e le specificità che ogni situazione di apprendimento ogni volta
comporta»; infine, «l'apprendimento a cui si riferiscono
le UA è sia l'apprendimento come trasformazione di sé (asse dell' essere
personale, dei processi soggettivi, delle condotte morali, degli
atteggiamenti, delle emozioni, dell'identità, dei significati) e
l'apprendimento come acquisizione di qualcosa (asse dell'avere,
dell'oggetto culturale e delle prestazioni osservabili e misurabili),
dove è evidente, però, che il secondo, cioè l'acquisizione di conoscenze
ed abilità non possedute dall'allievo, ma ritenute importanti per tutti
dalla comunità nazionale (Indicazioni nazionali), è funzionale al primo.
[...] Si potrebbe dire che l'apprendimento a cui si riferiscono le UA
non è la sommatoria di conoscenze e abilità imparate, ma l'apprendimento
formativo: quello che parte da un intero significativo (il compito
unitario di apprendimento e si conclude in un intero ancora più
significativo (la persona che cresce, al cui interno le conoscenze e
abilità si cementano perché si innestano sulle capacità e sboccano nelle
competenze personali).
Centralità dell'azione docente
Ebbene, l'agente di questa particolare e straordinaria reazione chimica
(o transustanziazione) che prende gli «obiettjvi specifici di
apprendimento» dettati dal Ministero, per definizione quindi astratti da
un contesto esistenziale degli allievi; che «si assume la libertà e la
responsabilità di mediarli, interpretarli, ordinarli, distribuirli ed
organizzarli in maniera tale di renderli obiettivi formativi» completi
dei relativi standard di prestazione (dalle Indicazioni nazionali), per
definizione, quindi, contestualizzati ad un gruppo classe e alla
biografia esistenziale di ciascun allievo e che, sulla base degli
obiettivi formativi e dei relativi standard, sviluppa «unità di
apprendimento» che vanno poi a costituire i piani di studio
personalizzati, questo agente chimico è il docente, anzi l'équipe
docente. Non gli esperti ministeriali che hanno confezionato le
Indicazioni nazionali, e nemmeno i più grandi esperti universitari del
mondo che potranno assistere in diretta on line i docenti.
In maniera semplice e cruciale, tutta questa trasformazione non accade
senza l'azione professionale del docente che sta in classe, lavora con i
suoi allievi, instaura con loro una relazione che va oltre quella che
ogni allievo può tranquillamente e meglio ricavare da un programma di
insegnamento predisposto dal computer e che va pure oltre ciò che il
docente stesso sa (ogni azione porta con sé, infatti, oltre che un
sapere esplicito, anche un sapere tacito, inesprimibile, ma non per
questo meno proliferante ed efficace). È l'azione del docente, l'azione
reale, quotidiana, che educa gli allievi mentre educa anche se stessa,
che viene ad assumere, quindi, un ruolo centrale sia nella formazione
iniziale degli insegnanti sia nella scienza dell'apprendimento e
dell'insegnamento sia nei processi educativi.
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O.S.A.
Unità di apprendimento |