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IL MIRACOLO DI SAN MICHELE
Le campane suonarono a distesa.
Poche donne e qualche uomo, quelli che abitavano lì vicino raggiunsero
subito il convento e la notizia del miracolo si infilò velocemente in tutte
le case del paese. Un'ora più tardi, padre Samuele pregava e cantava nella
grotta del Santo, piena di gente.
San Michele era là, nella sua nicchia poggiata sopra l'altare di
marmo: il capo, appesantito da un'enorme corona, leggermente piegato a
sinistra; il volto pallido e sereno; la destra alzata, pronta a colpire con
la spada Lucifero, schiacciato dai suoi piedi.
Tutti si chiedevano perché mai la statua dell'Arcangelo si trovasse
lì, al suo solito posto, perfettamente sistemata. Si sapeva in paese che
l'effigie di San Michele, scolpita in pietra, in quei giorni era sottoposta
al restauro da due artigiani locali. Era stata, per questo motivo, tolta
dalla nicchia e deposta ai piedi dell'altare, dove Emilio e il suo
giovanissimo discepolo Armando stavano togliendo dalla pietra lo sporco
causato dalle candele accese nella grotta.
Che qualcuno avesse potuto sollevare la statua e riporla nella
nicchia fu un'ipotesi subito scartata, a causa del peso del blocco di pietra
che richiedeva la forza di diversi uomini. E poi, la porta della grotta era
regolarmente chiusa e le chiavi erano custodite dal restauratore.
San Michele aveva fatto il miracolo. Era tornato da solo al suo
posto, in alto, sull'altare, per riaffermare il suo potere e per ottenere
l'omaggio dei fedeli.
Nessuno avanzò dei dubbi, tranne il parroco del paese, che propose
con scetticismo nell'omelia della messa, subito celebrata, di rimettere a
terra la statua per vedere se il miracolo si ripeteva. Nessun uomo si fece
avanti e le donne cominciarono a sparlare sulla poca fede del prete.
Durante tutto quel giorno, nella notte e nei giorni seguenti la
grotta fu meta di pellegrini, accorsi dai paesi vicini, dove la voce del
miracolo non aveva avuto bisogno di banditori per diffondersi.
I membri di un comitato, formatosi in tutta fretta, iniziarono a raccogliere
offerte per organizzare dei festeggiamenti in onore del Santo. Alcuni
volevano portare la statua in processione per le strade del paese, ma il
parroco stesso e la maggior parte del popolo si opposero perché nella sua
ultima uscita dalla grotta il Principe delle milizie angeliche, che non
amava essere spostato dalla sua sede, aveva provocato una grandinata come
non se n'erano mai viste.
Il piccolo centro, dove la vita scorreva placida e sonnolenta, si
rianimò. Per una settimana le vie e i vicoli furono percorsi da gente che
andava e veniva mostrando sul volto i segni di una gioia mai provata prima.
Tutti parlavano del miracolo e si sentivano fieri di essere testimoni di un
evento straordinario.
Emilio, e più ancora il quattordicenne Armando, che per primo aveva
dato la notizia del miracolo, provarono la mistica sensazione di essere dei
prescelti e di godere della grazia del Santo. Furono costretti a ripetere
un'infinità di volte che avevano lasciato la statua a terra la sera prima e
l'avevano trovata nella nicchia la mattina seguente, che avevano senza ombra
di dubbio chiuso la porta di accesso alla grotta e che ben chiusa l'avevano
trovata l'indomani.
Armando raccontava, come se si trattasse di un sogno, che
egli aveva aperto la porta, era penetrato all'interno della grotta, aveva
disceso i gradini che conducevano all'altare ed aveva diretto gli occhi nel
punto dove avrebbe dovuto trovarsi il simulacro di San Michele. Qui il
ragazzo interrompeva per un poco il suo racconto per parlare del suo stato
d'animo nel momento in cui si era accorto che la statua era "volata" in
alto. Poi spiegava come aveva avvertito il suo "maestro"
Emilio e come era corso a dare la notizia prima agli operai della cava di
calcare, che stava nei pressi della grotta, e dopo ai frati del convento.
Il racconto dei due, arricchito ogni volta di particolari inediti,
passava da una bocca all'altra.
Anche il vescovo volle sentirli, insieme al parroco, don Giovanni,
e ad altre persone del paese, per avere degli elementi su cui riflettere
prima di assumere una posizione chiara sulla veridicità o meno del miracolo.
Mentre il vescovo indagava e pregava l'Arcangelo di illuminarlo,
don Giovanni e padre Samuele assecondavano, anche se con scarsa convinzione,
le fantasie dei loro fedeli, che affollavano le chiese durante le frequenti
funzioni religiose.
Il miracolo aveva fatto diventare tutti più buoni, più cordiali, ed
aveva acceso una fiammella di fede anche nei cuori più gelidi e scuri.
Un giorno la notizia del miracolo di
San Michele apparve sul giornale. Ormai non si trattava più di un fatto che
aveva interessato un numero ristretto di paesi. Il miracolo sul giornale
acquistava una credibilità indiscussa e coinvolgeva fedeli e religiosi di
un'intera regione.
Teresa lo capì e fu assalita dal rimorso. Aveva riso tanto, in
segreto, insieme alle sue compagne, vantandosi di essere riuscite ad
ingannare un intero paese e di aver saputo sostenere bene la parte gridando
come tutti al miracolo e recandosi spesso a pregare nella grotta. Adesso,
però, era impossibile continuare a tacere; non dormiva più, assalita com'era
da mille pensieri. Temeva addirittura che San Michele potesse vendicarsi di
ciò che lei e le sue compagne di lavoro avevano architettato. Si
preoccupava, d'altra parte, delle reazioni della gente se avesse fatto
conoscere la verità. Si vedeva additata mentre passeggiava per le vie del
paese, schernita mentre portava al frantoio, in equilibrio sul capo, la
cesta piena di calcare. La tormentavano i visi dei genitori, colmi di
collera e di rancore. Sentiva le parole di condanna pronunciate dall'altare
da don Giovanni e le sembrava di essere quel diavolo calpestato
dall'Arcangelo.
La giovane Teresa non ne poté più. Senza dire niente alle compagne
di sventura, badando che nessuno la vedesse, una sera trovò il coraggio di
oltrepassare la soglia del convento per chiedere a padre Samuele di
confessarla. Rivelò che insieme ad altre sei donne, tutte operaie della
cava, quella sera, terminato il lavoro, si era recata nella baracca vicina
alla grotta, dove era solita cambiarsi d'abito prima di far ritorno in
paese. Lì, chissà come, le era venuta l'idea di organizzare uno scherzo ad
Emilio ed Armando, rimettendo nell'edicola il simulacro di San Michele.
Tutte le compagne erano state d'accordo.
Alla richiesta di padre Samuele di sapere come avevano fatto ad
entrare e ad uscire dalla grotta senza forzare la porta d'ingresso, Teresa
svelò che si erano calate attraverso il foro esistente nella volta, dove
precipitò, secondo la leggenda, la mucca che fece scoprire la cavità dove
era nascosta la statua del Santo.
Ora tutto era chiaro. Sei giovani donne si erano rese protagoniste
di una beffa di cui non avevano affatto previsto le conseguenze.
Il frate licenziò Teresa, rimproverandola ancora una volta di aver
compiuto un gesto estremamente grave e le disse che non avrebbe potuto
rispettare del tutto il segreto della confessione, perché era necessario che
la gente conoscesse la verità.
Il giorno dopo, in chiesa, padre Samuele spiegò ai fedeli presenti come era
avvenuto il "miracolo", ma non svelò i nomi delle artefici. Ai paesani,
però, fu facile individuarle, anche se nessuno osò accusarle apertamente.
Esse furono insieme condannate e temute, perché avevano compiuto un'impresa
che aveva richiesto fantasia, coraggio e forza, qualità che nessun uomo di
quel paese era prima disposto a riconoscere in una donna.
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